Il Bambino con il Pigiama a Righe – John Boyne – Recensione

Risultati immagini per il bambino con il pigiama a righe libroCaso letterario di una decina di anni fa, Il Bambino con il Pigiama a Righe, dell’irlandese John Boyne, ha venduto milioni di copie e da esso è stato anche tratto un film.

E’ una storia che parla dell’improbabile, fattualmente impossibile e segreta amicizia tra due bambini di 9 anni, un tedesco ed un ebreo polacco, Bruno e Shmuel, che riesce a nascere e a finire, tragicamente, nel campo di sterminio di Auschwitz, del quale il padre di Bruno è il direttore (incaricato da Adolf Hitler in persona).

Sarò diretto. Il libro non mi piace. E condivido l’opinione del rabbino Benjamin Blech, che l’ha definito una profanazione. Non tanto per via dell’impossibilità del fiorire di una tale amicizia, per come è stata raccontata (Blech si sofferma sul fatto che la maggior parte degli inabili al lavoro venisse subito mandata alle camere a gas, e che – comunque – le recinzioni di Auschwitz, attraverso le quali i protagonisti si parlano e toccano – fossero controllate ed elettrificate), ma lo ritengo una profanazione per via delle scelte stilistiche dello scrittore e del suo ardire a romanzare personaggi (Hitler!) che con tanta leggerezza non dovrebbero essere manipolati. Perché Hitler non è l’orco cattivo delle fiabe, fu reale, purtroppo… fu e sempre minaccia di essere un male molto più radicale e totale. Bisognerebbe avere il pudore di non farlo diventare uno dei personaggi di una didascalica fiaba tragica per un romanzo per ragazzi.

A parte questo cattivo gusto, parlavo di scelte stilistiche. Bene. Mi ha fatto storcere, spezzare, perdere il naso e la calma… mi ha fatto sdegnare il fatto che le parole “Führer” e “Auschwitz” vengano sempre storpiate dal personaggio principale, Bruno… che tra l’altro è anche l’unico che, chissà perché, le pronuncia. Ora, Bruno ha 9 e 10 anni durante la vicenda, che Boyne ci racconta… e la lingua madre del protagonista è il tedesco. Tra l’altro, per la sua età è un bambino istruito e gran lettore di libri e queste – a quanto risulta – sono le uniche parole che pronuncia male. Qui o l’autore non conosce bene i bambini, che sono molto più intelligenti di quanto dimostra di credere, o – più probabile – ci vuole intenerire marcando quanto ingenuo e puro e incantato sia l’animo del protagonista. Ma posso dire che una tale scelta la trovo sì una profanazione?

Le cose vanno chiamate col loro nome. Soprattutto queste cose. Centinaia di migliaia di bambini, se non milioni, hanno dovuto imparare e pronunciare per forza i nomi di Auschwitz e del Führer. Da cosa vuole proteggere i giovani lettori John Boyne? Perché sceglie di censurare sempre queste parole – e in modo poco credibile? Perché un bambino non può dire (o leggere) queste parole? Questa è forse la cosa che più mi ha fatto saltare i nervi… perché non credo che l’autore l’abbia fatto per via di una qualche forma di rispetto, bensì solo per creare un’impressione in chi legge. Proprio no, non vedo rispetto per chi, seppur più piccolo ha DOVUTO imparare quei nomi e non vedo rispetto nemmeno per l’infanzia, perché – diciamocelo – sia i bambini dell’età di Bruno sia quelli un po’ più piccoli, sono perfettamente in grado di imparare delle parole – se normodotati, come il protagonista è. I bambini intorno a quell’età, inoltre, non sarebbero nemmeno così ignari dell’ambiente che li circonda e sicuramente, dato che la propaganda iniziava dalle classi elementari, non erano ignari di chi fosse un ebreo. Bruno invece vive per un anno di lato al campo di sterminio di Auschwitz e non ha la più pallida idea di cosa stia accadendo, né – per un anno – chiede nulla a nessuno… quando in realtà ci viene presentato come un bimbo sveglio e curioso.

Stiamo parlando di un romanzo in cui, letteralmente, c’è una casa a 10 passi da Auschwitz, dove la gente non sente nemmeno la puzza dei forni crematori… che mai vengono nominati.

Caro Boyne, nel tuo romanzo per ragazzi (per istruirli, per far nascere in loro dubbi, domande???) non hai omesso un po’ troppe cose?

Voler scrivere una specie di favola tragica non giustifica tutto questo, ai miei occhi. E, forse, il tentato (quasi riuscito) genocidio di una popolazione e l’orrore di una morte violenta e ingiustificata non dovrebbero essere spiegati con l’impianto di un libro per i più piccoli in cui tutto è scientificamente predisposto per suscitare quella o questa emozione, ma con poco rispetto per chi – in quei luoghi – ci è passato, morto ed è stato disintegrato. Non credo si meritassero – le vittime – di essere vittime anche di un romanzo semplicisticamente pop.

Ho un’idea. Ai ragazzini insegniamo la storia! Non ne saranno mai traumatizzati tanto, quanto chi a 6, 10, 20, 60 anni si è trovato in una camera a gas, insieme a centinaia di persone, sotto gli effetti dello Zyklon B.

– Giuseppe Circiello –